Viaggio nell'inferno di Dante

 

Nell’oltretomba descritto nella sua opera più famosa, la 'Commedia', il "sommo poeta", di cui ricorre il settecentenario della morte, relegò personaggi della Firenze del suo tempo, costruendo uno spietato ritratto della realtà storica in cui visse

Bella, la madre di Dante Alighieri, sognò «di essere sotto un altissimo alloro […] e quivi si sentia partorire uno figliolo, il quale nutricandosi solo delle orbache, le quali dallo alloro cadevano […] le parea divenisse un pastore […] le parea vederlo cadere. E nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone li vedea divenuto». Il racconto di Giovanni Boccaccio era allegorico: le bacche indicavano la cultura di cui si era “nutrito” Dante, l’alloro rimandava alla gloria poetica, la caduta alla sua morte e la trasformazione in pavone alla fama che le sue opere gli procurarono. Tra queste, la più nota è di certo la Commedia, la cui stesura è intimamente connessa alla vita politica del poeta.

Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio del 1265 sotto il segno zodiacale dei gemelli, come ricorda lui stesso nel Paradiso. Il suo vero nome era Durante, ma non lo usò mai, secondo Filippo Villani – un cronista del XIV secolo – perché a Firenze a quel tempo si era soliti usare i diminutivi. Era figlio di Alighiero – un uomo d’affari e molto probabilmente anche usuraio – e di Bella, che si ritiene appartenesse alla potente famiglia fiorentina degli Abati. La donna morì quando Dante era piccolo e il padre, già avanti con l’età, si risposò con una donna di nome Lapa da cui ebbe almeno un figlio, che chiamarono Francesco. Dante aveva certamente anche una sorella di nome Gaetana, detta Tana. I genitori del poeta non vengono mai menzionati nelle sue opere, mentre nel Paradiso il fiorentino parla di Cacciaguida, un suo trisavolo che sarebbe stato nominato cavaliere dall’imperatore Corrado III durante le crociate.

Famoso anche in vita

A differenza di tanti altri uomini del suo tempo, su Dante sappiamo molte cose, sia perché le raccontò lui stesso nelle sue opere, sia perché, essendo un personaggio noto quando era ancora in vita, le informazioni sulla sua figura abbondano. Secondo alcuni studi ottocenteschi soffriva di attacchi di epilessia, che spiegherebbero i frequenti mancamenti descritti nell’Inferno. Questa tesi però non ha mai trovato particolari riscontri tra gli esperti. Sono invece noti i suoi problemi alla vista, che cercava di curare stando al buio e con sciacqui di acqua fresca.

Secondo diverse fonti, Dante aveva un brutto carattere e si scaldava facilmente soprattutto nelle discussioni di politica. Si racconta, per esempio, che quando era esule in Romagna montava su tutte le furie contro chiunque parlasse male della fazione che lui sosteneva, quella dei guelfi. Il fiorentino aveva molto a cuore questo schieramento, per il quale prese parte alla battaglia di Campaldino, che vedeva appunto i guelfi filopapali contrapposti ai ghibellini filoimperiali.


Nel 1277, quando Dante aveva circa dodici anni, la famiglia combinò il suo matrimonio con Gemma, una ragazza appartenente alla potente famiglia fiorentina dei Donati. Le nozze si celebrarono tra il 1283 e 1285. Eppure il poeta era innamorato di un’altra. Ogni primo maggio a Firenze si celebrava l’arrivo della bella stagione con banchetti e musica in tutta la città. Le donne e gli uomini festeggiavano separatamente, ma ciò non valeva per i bambini. Fu così che nel 1274 Dante vide per la prima volta Beatrice (Bice) Portinari, con indosso uno sgargiante abito rosso. Lei aveva circa otto anni, lui nove. «D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima», avrebbe affermato in seguito nella Vita Nuova, sebbene dopo quel primo incontro infantile i due non si videro più, se non diversi anni più tardi. Nel ritrovarla il fiorentino capì che il suo amore era immutato. Quando poi la donna morì prematuramente nel 1290, forse dando alla luce il suo pimo figlio, per elaborare il lutto Dante si promise di scrivere un’opera per «dicere di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». È il poeta stesso ad annunciare questo proposito nelle ultime righe della Vita Nuova, e diversi studiosi hanno visto, in questa dichiarazione d’intenti, un chiaro riferimento alla Commedia. Secondo altri, invece, l’opera in questione sarebbe piuttosto un testo andato perduto.

«D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima», avrebbe affermato Dante nella Vita Nuova in riferimento al suo primo incontro con Beatrice

Dante Alighieri fu molto attivo politicamente e nel giugno 1300 fu eletto priore, la più importante magistratura cittadina. Firenze però era sull’orlo di una guerra civile. Il partito dominante, quello dei guelfi, si era scisso in due fazioni, i bianchi e i neri. I primi – cui il poeta era affine – difendevano la libertà della città, mentre i secondi appoggiavano le mire di Bonifacio VIII, desideroso d’ imporre il proprio dominio sulla Toscana. Pur cercando di rimanere neutrale, il fiorentino tentò di contrastare i maneggi del pontefice e, quando i guelfi neri presero il potere nell’autunno del 1301, fu accusato di «baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia». La condanna a cinquemila fiorini di multa, all’interdizione dai pubblici uffici e all’esilio perpetuo e poi a morte lo costrinsero ad abbandonare Firenze e a rifugiarsi a Ravenna. Sarebbe morto tra il 13 e il 14 settembre del 1321 senza mai riuscire a fare ritorno nella sua amata città.

L’esilio, la sua esperienza in politica e la vita da esule avevano mostrato a Dante una società caotica, violenta e corrotta, in cui l’imperatore si disinteressava dell’Italia e la Chiesa perseguiva il potere temporale anziché la cura delle anime. Fu allora che il poeta immaginò un viaggio nei tre regni dell’oltretomba, nel quale si proponeva di esplorare la sofferenza dell’inferno, il pentimento del purgatorio e l’ascensione verso Dio del paradiso così da ritrovare la «dritta via» e mostrarla agli uomini nel suo poema. Secondo Boccaccio, dopo l’esilio di Dante Gemma Donati aveva trovato in un baule i primi sette canti dell’Inferno, la prima delle tre cantiche della Commedia. Tuttavia è più probabile che il poeta vi abbia messo mano solo dopo aver lasciato Firenze.

Un principio ordinatore

Il viaggio che il “sommo poeta” racconta nella Commedia inizia con la discesa agli inferi tra fiamme, demoni e castighi eterni, un topos che non ha mai smesso di affascinare. Il fiorentino fece proprie le esperienze infernali di personaggi come Orfeo, Teseo ed Ercole tramandate dalla tradizione classica e nella sua opera riversò le conoscenze di tutta la vita. Alcuni testi – come l’Eneide di Virgilio, il De Repubblica di Cicerone, il De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, ma pure l’Apocalisse di Giovanni, la Seconda lettera ai Corinzi di Paolo e il pensiero dei padri della Chiesa – ne influenzarono il carattere profetico, l’impianto teologico e lo stile poetico, contribuendo a definire la struttura e il senso dell’opera.

Se per i suoi predecessori l’inferno era un indistinto carnaio nel quale le anime erano collocate in maniera piuttosto casuale, Dante adottò dal pensiero di san Tommaso d’Aquino un principio ordinatore: non tutti i peccati erano uguali. La natura e la gravità del peccato designavano la collocazione di ciascuna anima nell’inferno e la relativa pena da scontare per l’eternità. Per effetto della “legge del contrappasso” (dal latino contrappassum, “soffrire contro”) al comportamento tenuto dal peccatore in vita corrispondeva una pena, antitetica oppure analoga, nell’oltretomba. Ad esempio gli indovini (XX canto, VIII cerchio) vengono puniti per antitesi: se da vivi avevano spinto la propria testa troppo in avanti per prevedere il futuro, nell’inferno hanno il viso rivolto all’indietro e sono costretti a camminare in quella direzione. Per analogia, invece, venivano puniti i lussuriosi (V canto, II cerchio): da vivi erano guidati dal turbinio dei sensi, mentre ora sono trascinati dalla bufera infernale.

Scenari danteschi

Il “sommo poeta” è mosso dall’intento morale di condurre gli uomini alla rettitudine e alla salvezza. Per far ciò ha bisogno di mostrare tutto il male, mettendolo in scena in un unico luogo fisico e reale dove ogni elemento, orrendo e ostile, è parte di una complessa macchina del terrore. Per la definizione di tale contesto, in suo soccorso viene la tradizione della ribellione a Dio da parte dell’invidioso e superbo angelo Lucifero. Questi, dopo essere stato sconfitto dall’arcangelo Michele, precipitò fino al centro della Terra dotato di sembianze mostruose. Impattando sulla crosta terrestre, il principe del male diede vita a una voragine dalla forma di un grande cono rovesciato diviso in cerchi concentrici, sul cui fondo, nel punto più lontano dalla grazia di Dio e agli antipodi rispetto alla città di Gerusalemme, regna enorme e incontrastato.

Illustrazione del XII canto rinvenuta in un manoscritto del 1450-75 e raffigurante i centauri sul Flegetonte. Arnesto Pidi. Biblioteca Trivulziana, Milano

Foto: Dagli Orti / Scala, Firenze

Per configurare il proprio oltretomba Dante fa riferimento al sistema cosmologico tolemaico. In tale prospettiva la voragine infernale è situata nell’emisfero boreale (o settentrionale o delle terre emerse) e ha il proprio centro nella città di Gerusalemme. Nell’emisfero opposto (meridionale o delle acque) sorge invece la montagna del purgatorio, il secondo dei regni ultraterreni, a sua volta sormontato dai nove cieli del paradiso. «Nel mezzo del cammin» della sua vita, Dante si ritrova dunque smarrito in una selva oscura, al di sotto della quale si cela l’accesso agli inferi, divisi in nove cerchi concentrici e tre diverse zone: antinferno, alto e basso inferno. Terre brulle e franose, antri, paludi, strapiombi, lingue di fuoco e acque morte danno vita a scenari spaventosi e fortemente simbolici. Lo stesso sistema fluviale dell’averno è metafora di un’umanità addolorata e piangente. Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito deriverebbero infatti da un unico fiume originatosi dalle lacrime sgorganti dall’enorme statua del gran Veglio a Creta, che simboleggia la civiltà umana corrotta dal peccato. Attraverso i fiumi, le lacrime versate giungono in forma di spirale nel punto più basso dell’inferno a formare il lago Cocito, le cui acque ghiacciate intrappolano Lucifero, origine e destinazione del male.

Nell’inferno il tempo non esiste, eccetto per Dante che è un vivente. Dal tramonto di venerdì 8 aprile 1300 (o 25 marzo secondo un’altra teoria) quando il poeta si perde nella selva fino al momento in cui Dante e Virgilio si trovano davanti a Lucifero, la sera di sabato 9 aprile 1300 (o 26 marzo), trascorrono circa ventiquattro ore. In Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante (1588) Galileo Galilei ipotizzò che la profondità dell’inferno superasse le 3.245 miglia. Dante e Virgilio non le percorsero seguendo una linea retta, pertanto la distanza coperta fu in teoria maggiore. Considerando il numero di ore trascorse nel regno infernale, è possibile calcolare che i due procedevano a una velocità superiore ai 200 km/h. Ma in un viaggio voluto da Dio, funzionale alla rieducazione di un’anima prossima alla perdizione, tali parametri non valgono nulla.

Dannati e carcerieri

Per popolare quel regno malefico fatto di «aere senza stelle», privato cioè della luce della grazia di Dio, Dante ricorre a personaggi della mitologia classica e della demonologia medievale.

Le creature mostruose rappresentano la bestialità del peccato, ma in generale il loro ruolo è quello di sorvegliare e redarguire i dannati o favorire il transito dei due illustri viandanti. Sulla «trista riviera» del fiume Acheronte (canto III, antinferno) sta Caronte, il nocchiero infernale «con gli occhi di bragia», che batte col remo le anime che si attardano nell’oltrepassare la «riva malvagia». Per Dante, Caronte non è altro che una delle antiche divinità pagane, false e bugiarde, cui spetta il compito di carcerieri dell’immenso oltretomba. Poco prima d’incontrare il

demone-traghettatore dalla folta barba bianca, Dante e Virgilio s’imbattono in una schiera di «anime triste di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo». Sono gli ignavi, che nelle tante vicissitudini della vita non seppero scegliere. Per effetto del contrappasso ora sono costretti a correre nudi, perseguitati da vespe e mosconi nel tentativo di afferrare una bandiera volante, emblema di una causa per la quale avrebbero dovuto battersi in vita.

Edizione della 'Commedia' curata da Ludovico Dolce. Si tratta della prima opera a stampa in cui compare l’attributo 'Divina', aggiunto al titolo originale da Giovanni Boccaccio. 1555

Foto: Alamy / ACI

Peccatori illustri

Tra gli ignavi Dante afferma di riconoscere «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto». In tale figura si è portati a riconoscere Pietro da Morrone, il monaco eremita che nel 1294 venne eletto papa col nome di Celestino V. Dopo una vita di solitudine e silenzio, il pontefice si trovò invischiato in insostenibili intrighi di potere che lo portarono a rinunciare al soglio pontificio. Dietro questa scelta ci fu probabilmente la regia del cardinal Caetani, poi eletto papa col nome di Bonifacio VIII, sostenitore occulto della fazione dei guelfi neri che prese il potere a Firenze nel 1301 e che successivamente costrinse Dante all’esilio.

A guardia del secondo cerchio (canto V) si trova Minosse, orribile e ringhioso. L’antico re di Creta noto per il suo forte senso di giustizia è ora un demone incaricato di valutare i peccati che gravano sulle anime e decretarne l’esatta collocazione nell’inferno. La creatura avvolge la propria coda intorno a sé un numero di volte corrispondente a quello del cerchio cui è destinato il dannato. Congedatisi da Minosse, Dante e Virgilio giungono in un luogo oscuro dove risuonano lamenti di dolore. Proprio in quel momento una «bufera infernal» trascina, solleva e percuote alcune anime. Sono i «peccator carnali», o lussuriosi, coloro che da vivi non seppero controllare il turbinio delle passioni e ora sono sballottati da una tempesta perenne. Fra loro Dante nota due anime che «’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri»: sono Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, gli amanti uccisi da Gianciotto, il marito di lei. Il racconto delle sofferenze di Francesca turba Dante al punto di farlo piangere di compassione e poi perdere i sensi.

Nel terzo cerchio (canto VI), sotto una pioggia eterna, fredda e opprimente si materializza Cerbero, altra belva mostruosa e vorace che con le sue «tre gole» latra come un cane verso le anime dei golosi immerse nel fango prima di dilaniarle e divorarle. Dalla melma si solleva uno dei tanti peccatori di gola che si presenta: «Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco». Incalzato dal poeta con domande sulla situazione politica di Firenze, Ciacco profetizza che dopo un breve predominio dei guelfi bianchi trionferanno i neri grazie all’appoggio di papa Bonifacio VIII; che in città i giusti si contano sulla punta delle dita ma nessuno li ascolta, mentre le tre «faville» che hanno infiammato i cuori generando discordia sono superbia, invidia e avarizia.

Nell’illustrazione di Gustave Doré Lucifero, intrappolato nel ghiaccio, divora i traditori Giuda, Bruto e Cassio. 1883 circa

Foto: White Images / Scala, Firenze

A guardia del IV e V cerchio (VII e VIII canto) stanno altre due creature subumane. Pluto e Flegias sono i demoni-guardiani posti rispettivamente a guardia degli avari e dei prodighi e degli iracondi o accidiosi. Nel primo caso si tratta di anime costrette a spingere macigni in direzioni opposte e a insultarsi quando si scontrano con gli altri dannati. La loro colpa fu quella di non aver avuto misura nell’accumulare (avari) o sperperare il denaro (prodighi) e fra di loro si scorgono molti ecclesiastici la cui figura è però rovinata dal peccato. Nella palude Stigia sono immersi invece gli iracondi, che si sbranano l’un l’altro, o gli accidiosi, coloro i quali vissero passivamente. Nel bel mezzo della traversata della palude sulla veloce imbarcazione del nocchiero Flegias, un dannato sporco di fango chiede in malo modo a Dante perché egli che è vivo si trova nel regno dei morti. Il poeta vi riconosce Filippo Argenti, fiorentino appartenente alla famiglia degli Adimari e alla fazione dei guelfi neri, noto al tempo per la sua prepotenza e arroganza. Dante si rivolge a lui apostrofandolo «spirito maledetto» e alla reazione del dannato che tenta di rovesciare la barca, Virgilio lo ricaccia nel fango. Allora altri dannati si accaniscono su Argenti, che si strappa le carni a morsi.

Nella città infernale di Dite (VI cerchio, canto X) all’interno di tombe scoperchiate patiscono gli eretici. Da uno dei sepolcri infuocati emerge Farinata degli Uberti, fiorentino della fazione dei ghibellini, che si trova in questo remoto angolo dell’inferno perché subì un processo postumo per eresia. Dopo una lunga discussione sugli antichi dissapori tra le rispettive famiglie e fazioni, Dante riceverà per bocca dell’esule Farinata un’inattesa profezia. Prima che vi siano cinquanta lune piene, e trascorrano altrettanti mesi, il poeta avrà contezza di «quanto quell’arte pesa», cioè di quanto sarebbe stato difficile far ritorno a Firenze dall’esilio del 1302.

Dinanzi a Lucifero

La mostruosità sta per raggiungere il proprio apice sul fondo dell’inferno. Nel Cocito, un lago ghiacciato per effetto del vento freddo prodotto dalle ali di Lucifero, vengono puniti coloro i quali in vita tradirono persone che si fidarono del prossimo. Quattro zone concentriche prendono infatti il nome da Caino, Antenore, Tolomeo e Giuda Iscariota, considerati rispettivamente traditori dei parenti, della patria, degli ospiti e di Dio. Nella quarta zona, la Giudecca, dal nome di colui che voltò le spalle a Cristo, si raggiunge il punto più basso dell’inferno dove Lucifero si staglia davanti a Dante e Virgilio in tutta la sua mole.

«Lo ‘mperador del doloroso regno» fuoriesce dal ghiaccio da metà del petto, è enorme e orribile. «Oh quanto parve a me gran maraviglia / quand’io vidi tre facce a la sua testa!», esclama Dante inorridito, mentre osserva le smisurate ali di pipistrello gelare il Cocito con i loro battiti, intrappolando i dannati destinati all’ultimo cerchio. Le tre bocche masticano Giuda insieme a Bruto e Cassio, i traditori di Cesare, mentre i sei occhi piangono copiose lacrime che vanno a mescolarsi alla «sanguinosa bava». Il principe delle tenebre è la rappresentazione della massa bruta del male nella sua massima espressione.

Davanti a questa creatura terrificante si conclude il viaggio di Dante nell’inferno. Virgilio lo sprona a proseguire: «Conviensi dipartir da tanto male», afferma la sua guida. E così, aggrappandosi al pelo di Lucifero e ridiscendendone il corpo fino alle anche, i due iniziano il lungo cammino di risalita verso il pentimento e la salvezza.


https://www.storicang.it/a/viaggio-nellinferno-di-dante_15320

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