Le radici messianiche dell’ISIS



L’organizzazione sembra apparentemente emergere come una “costola” radicale da Al-Quaida nel 2004, inizialmente sotto la guida di Abū Mu’ab al-Zarqawī. Il rapporto con Al-Quaida viene però ad incrinarsi ben presto, già nel 2005, per il riemergere di differenze più contingenti e politiche (relative all’uso indiscriminato della violenza sulle popolazioni sunnite non wahabite) che non ideologiche.

Da allora, le attività dell’IS hanno marcato un continuo crescendo e non è inverosimile che eserciteranno sempre più un irresistibile richiamo nei riguardi di altri movimenti terroristici, primo tra tutti la stessa Al-Quaida.

Pochi sanno però che quel progetto affonda le sue origini molto lontano, e che è venuto alimentandosi a seguito della convergenza di due ordini di processi: la nascita di un movimento ereticale millenarista di ispirazione wahabita nel Sudan, intorno al 1881; e gli errori compiuti allora dagli Inglesi nel gestire quel primo caso prototipale di terrorismo cosiddetto “islamico”.

Terrorismo ante-litteram

Nel 1881 Mohamed Ahmed (1844-1885), educato nell’ambito di una tariqa sufi deviata ed infiltrata dal wahabismo – la Sammāniyya – sollevò i musulmani del Sudan contro il dominio egiziano per promuovere uno “stato islamico” – la Mahdiyah – retto dal Mahdi (il “ben guidato”) e destinato a contrastare la degenerazione dei costumi e ristabilire l’autentico Islam, dal Nord-Africa fino in India. Il Mahdi dichiarò lo Jihad (nonostante che il consiglio degli Ulema avesse disconosciuto la sua qualità di Mahdi e lo avesse discreditato), raccogliendo attorno a sé gli Ansàr (“coloro che aiutano”) e promuovendo la conquista del Sudan.

Di vittoria in vittoria, il Mahdi procedette con lo sterminio sistematico di sunniti e sciti, e in generale di quanti non si piegavano a riconoscere la nuova figura messianica come tale, distruggendo i luoghi di culto tradizionali (tra cui la tomba del sayyd Al-Hassan, a Kassala, luogo di venerazione particolarmente caro agli sciiti), in ciò anticipando le tristi gesta compiute dall’IS che registriamo in questi giorni.

Come noto, le truppe del Mahdi conquistarono Karthum nel gennaio del 1885 (dopo averla infiltrata ed aver fatto precedere l’attacco da una miriade di attentati suicidi e di episodi di micro-terrorismo anticipatori delle moderne tecniche) ed estesero il loro controllo su pressoché tutto il Sudan e l’Egitto meridionale. Dopo gli errori di sottovalutazione iniziali, occorsero vent’anni agli Inglesi per ristabilire un precario controllo sulla regione.

Muhammad Ahmad, il Mahdi, è tutt’oggi considerato il fondatore del nazionalismo sudanese. Il Partito Umma pretende esserne il discendente politico ed il custode della tradizione inaugurato nel periodo 1881-1885. Il Leader del movimento – Sadiq-al-Mahdi è il pronipote del primo Mahdi e l’Imam degli attuali Ansar, l’ordine religioso istituito ai tempi di Muhammad Ahmad. Sadiq è stato primo ministro del Sudan in due circostanze: nel 1966-67 e nel 1986-1989. Sarebbe interessante sapere se esiste un qualche collegamento tra i movimenti fondamentalisti attuali in Sudan e l’IS. Osama-bin-Laden era sicuramente in relazione con una cellula quaedista sudanese, e nel Sudan pose la sua base in cui dimorò dal 1992 al 1996. È probabilmente dalle basi del Sudan che vennero organizzati gli attentati di Nairobi e Dar-Es-Salaam contro le ambasciate statunitensi nel 1998, tant’è che la risposta americana comportò bombardamenti a tappeto di obiettivi militari e di fabbriche chimico-farmaceutiche in Sudan, presso Al-Shifa.

Califfato e Mahdi

L’obbiettivo del movimento mahadista, in perfetta assonanza con quello dell’ IS, era quello di diffondere il conflitto all’interno dell’Islam, per far poi prevalere le ragioni della Mahdiyah, intesa come “compimento” millenaristico dei fini dei tempi. Non a caso l’IS ha scelto per il suo “magazine” online il nome Dabiq, con riferimento all’area prossima ad Aleppo che la tradizione islamica descrive come il luogo dello scontro finale (l’armageddon, in greco) tra il Mahdi e al-Dajjal (il “bugiardo”, l’anticristo nella versione musulmana). Il riferimento a Dabiq è presente in numerosi hadith muhammadici (i “detti” attribuiti al Profeta), sovente citati da al-Zarqawi che ha ricordato come “la vittoria a Dabiq rappresenta la prima tappa nella conquista del mondo, a cominciare dalla disfatta di Costantinopoli e quindi di Roma”.

L’IS, ha quindi chiari caratteri “mahdisti”, cui del resto si richiama esplicitamente anche nei documenti resi disponibili online. Sulla base di questa (auto)investitura, l’IS ha riscritto le stesse regole della Shari’ah, legittimandole sulla base di presunte rivelazioni fatte direttamente al fondatore della setta da parte del Profeta Muhammad. È degno di nota come l’insegnamento veicolato dalla Sammāniyya (da cui emerse, ricordiamolo, il primo e più importante Mahdi), presenti non poche analogie con quanto proclamato dall’IS, ed in particolare mostra questo insolito connubio tra il richiamo ad un forte ed esasperato tradizionalismo e le istanze riformatrici che pretendono plasmare la società musulmana favorendone ‘appiattimento su una interpretazione letterale di alcuni passaggi coranici.

Queste posizioni sono state mutuate dall’introduzione di un concetto assolutamente estraneo alla tradizione musulmana, il ijtihàd, ovvero la “meditazione personale ed indipendente” che deve guidare ogni credente nella sua “propria” analisi e lettura del Corano.

Si tratta di una posizione teologica formalmente analoga a quella del Protestantesimo Luterano e Calvinista che rivendica al fedele il diritto di “interpretare” il testo sacro (aprendo così la via ad ogni sorta di arbitrio ermeneutico). Come conseguenza, chi compie questo genere di analisi servendosi dell’ijtihàd non è obbligato ad accettare le conclusioni dei grandi maestri medievali; anzi, la cieca adesione agli insegnamenti di questi maestri può essere considerata “politeismo”.

Questo atteggiamento spiega in particolare la feroce opposizione dei fondamentalisti di ispirazione wahabita all’insegnamento degli Ulema e, in particolare, alla tradizione Sufi. Per altro verso, la portata chiaramente “ereticale” di tale assunto, spiega l’avversione risoluta della tradizione islamica sunnita e sciita nei confronti dell’IS e di tutti quei movimenti fondamentalisti che si richiamano alla ijtihàd.

Per questo la restaurazione del califfato costituisce solo un obiettivo minore e forse solo apparente rispetto ad una strategia che può essere correttamente solo in senso escatologico. Il carattere millenarista spiega tra l’altro perché l’IS eserciti una così forte influenza sui suoi membri e di come ne concorra a preservarne l’unità, a dispetto dell’eterogeneità dei partecipanti. L’IS conferisce ai propri aderenti ciò che la civiltà occidentale non riesce più a fornire: una interpretazione della vita ed un disegno escatologico che permette di assegnare valori e significato ad esperienze condotte al limite.

Non bisogna tuttavia cadere nella trappola ordita da chi, dietro le quinte, manovra questo multi variegato fronte dell’ultra-fondamentalismo. È istruttivo infatti considerare l’ambiguo ruolo svolto finora dall’Arabia Saudita che, dopo decenni di sotterraneo fiancheggiamento, pretende porsi oggi alla testa del movimento anti-IS. L’IS finirà sicuramente con il crollare – per motivi esterni ed interni – ma alla fine, quale unico rappresentante accreditato dell’Islam “moderato” emergerà paradossalmente solo l’Arabia Saudita. Marginalizzato l’Iran, frantumati Siria ed Iraq, l’intero mondo musulmano rischia di essere egemonizzato, paradossalmente, proprio dalla potenza che più di tutti ha congiurato per creare l’attuale stato di crisi. E lo stendardo nero della “liberazione” mahidista ben presto resterà nelle sole mani dei wahabiti.

Non è infatti un caso che il messaggio mahdista trovi pronta accoglienza nelle popolazioni da secoli educate all’attesa del Mahdi: nel Sudan, in primo luogo, ma altresì tra i salafiti iracheni, dell’Arabia Saudita, o in alcune popolazioni presenti in Ciad, nel Mali e in Nigeria ed in Iraq. Il primo nemico dei mahdisti sono ovviamente gli sciti e gli alaouiti (i più propensi al dialogo con i cristiani) e quindi i sunniti tradizionali. Gli Yezidi, popolazione curda da sempre nel mirino delle persecuzioni musulmane (e non solo), rappresentano solo un utile agnello sacrificale, coinvolti, loro malgrado, in una guerra che interessa un’area geografica che costituisce uno snodo strategico nelle relazioni tra le diverse confessioni religiose islamiche.

A tale riguardo è inquietante come le aree calde cui dianzi si faceva riferimento, possano essere tutte inquadrate entro i confini di una carta geografica ricostruita sulla base delle antiche tradizioni misteriosofiche ed occultiste. È infatti noto agli studiosi sufi, da almeno un secolo (ben prima quindi degli avvenimenti odierni), che le aree in cui sarebbero comparsi i disordini legati all’avvento “apocalittico” del Mahdi (e in cui avrebbero “agito” le “forze del male”, esemplificate nella figura de Al-Dajjal), corrispondono ad alcune “torri” situate, almeno quattro di queste, nelle aree geo-strategiche di cui stiamo parlando. è altresì significativo che una quinta area venga collocata nella regione dell’antico Turkestan, oggi sede di tensioni tra comunità di diversa religione in cui sta facendo la sua comparsa un forte movimento islamista. Sapremo presto se questa leggenda si tradurrà ulteriormente in realtà.

http://informazioneconsapevole.blogspot.ch/2015/11/le-radici-messianiche-dellis.html

Mondo Tempo Reale

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