Il tesoro nascosto del Salento


FOTOGALLERIA Coperta di misteriose pitture murali, la Grotta dei Cervi, vicino a Otranto, era un luogo di culto delle prime comunità di agricoltori
di di Lisa Signorile e Anna Rita Longo - Fotografie di Nicola Destefano

I pittogrammi della Grotta dei Cervi formano una sorta di linguaggio ideografico ante litteram, articolato in simboli chiari, come animali e uomini, e in raffigurazioni astratte (come i labirinti sulla sinistra che rappresentano folle danzanti) o le figure cruciformi, riunioni di personaggi importanti.

Mentre avanziamo carponi nel fango, strisciando in un cunicolo buio alto meno di un metro, intravediamo qua e là, alla luce della lampada, la testa di un femore, o una scapola; ossa di esseri umani morti prima che qualcuno cominciasse a lavorare i metalli frammisti a resti di animali. Alla fine del cunicolo, quando finalmente riusciamo a rialzarci in piedi, una grande sala si apre davanti a noi. È una maestosa grotta di origine carsica, spettacolo tutt’altro che infrequente in Puglia. Ma presto notiamo il primo dettaglio che differenzia questa da tutte le altre grotte europee, e che ci ha portato sin quaggiù, a circa 28 metri di profondità: una grande pittura parietale in ocra rossa, una scena concepita da un artista sconosciuto migliaia di anni fa.

La Grotta dei Cervi, nella località di Porto Badisco, nel Salento, era un luogo di culto, un santuario, per le popolazioni del Neolitico, tra 8.000 e 5.000 anni fa. Oggi per arrivarci bisogna attraversare infinite distese di oliveti, un paesaggio arido e monotono che sarebbe irriconoscibile per le popolazioni di pastori e agricoltori stanziali che fecero della Grotta dei Cervi un punto di riferimento spirituale. Nel Neolitico il Salento era una pianura fertile dove coltivare soprattutto graminacee e qualche legume, e allevare bovini, ovini e maiali. Per far posto a queste nuove attività gli antichi querceti e la macchia mediterranea stavano già retrocedendo, e sono oggi del tutto scomparsi.

Vi fu in quel periodo un profondo ma graduale cambiamento ecologico per cause sia umane che climatiche, con periodi di intensa aridità intervallati da periodi più umidi. La fine di un “optimum climatico”, circa 5.000 anni fa, corrispose grosso modo alla fine del periodo di uso della grotta e all’inizio di un periodo più arido. È praticamente impossibile affermare quanto tutto ciò abbia influito sulla cultura delle popolazioni salentine e sulle loro credenze, ma sicuramente i cambiamenti climatici ne influenzarono lo stile di vita.

Ci sono poche certezze sulla storia di Grotta dei Cervi, a partire dalla prima, fondamentale domanda che viene spontaneo porsi: chi erano queste persone? «Non è facile dare una risposta», dice Elettra Ingravallo, che insegna paletnologia all’Università del Salento. «Allo stato attuale non sappiamo niente né della loro lingua né della loro appartenenza etnica». Ci spiega, però, che le pitture parlano di una società fondata sull’agricoltura e l’allevamento, che affidava ai pittogrammi e alle offerte un ruolo propiziatorio nei confronti delle attività quotidiane. Un ruolo particolare era riconosciuto all’acqua, con il suo profondo carico simbolico di “sorgente di vita”, amplificato dal fatto di essere associato all’ambiente ipogeo. Le grotte, infatti, erano percepite come un metaforico grembo della Dea Madre, venerata dalle comunità agricole. Un grembo al quale, non a caso, si ritornava dopo la morte, mediante la sepoltura in grotta, talvolta in posizione fetale.

«Purtroppo non ci sono pubblicazioni sulle sepolture della Grotta dei Cervi che chiariscano di chi siano i corpi, se di uomini, donne, anziani o bambini», dice Gemma Russo, addetta alla conservazione del materiale preistorico della Soprintendenza. Quando andiamo a trovarla presso la sede di Taranto della Soprintendenza per i Beni Archeologici, sottolinea con rammarico quanto ancora attenda di essere studiato e posto all’attenzione della comunità scientifica.


FOTOGALLERIA Coperta di misteriose pitture murali, la Grotta dei Cervi, vicino a Otranto, era un luogo di culto delle prime comunità di agricoltori
di di Lisa Signorile e Anna Rita Longo - Fotografie di Nicola Destefano

Lo "sciamano danzante", figura umana stilizzata con copricapo di piume e coda di animale, è il simbolo della Grotta dei Cervi e rievoca i rituali in essa compiuti.

Il grande “affresco” che ci accoglie nella sala centrale della grotta, da cui si diramano tre corridoi, rappresenta una scena di caccia, dipinta in ocra rossa. Gli animali cacciati vengono identificati dagli archeologi come “capridi”, ma sono così stilizzati che potrebbero essere anche gli estinti asini selvatici allora ancora presenti in Puglia (Equus hydruntinus), prede di valore per i cacciatori. Quasi di fronte, all’interno di nicchie nella roccia, altre scene illustrano momenti importanti della vita di questi pastori e agricoltori: uomini con l’arco e donne con un braccio teso, bambini, cani, una scena di caccia, un otre forse pieno di granaglie, dei puntini che forse indicano un raccolto. Tre strani personaggi circondano la scena: una donna con i piedi a coda di pesce, un individuo con due corna o appendici sulla testa, una strana figura umana con un braccio solo e un becco prominente.

Non sapremo mai chi o che cosa rappresentino queste figure, se divinità, personaggi di saghe o leggende, spiriti guida o altro. Sappiamo solo che avevano un ruolo abbastanza rilevante da essere raffigurati in una delle prime sale della grotta. In alto spicca la figura di un canide dalla coda grande, che potrebbe essere un cane o una volpe, di cui vi sono resti ossei nella grotta. Ai piedi delle pitture e sotto le formazioni calcaree furono trovati molti frammenti di ceramiche, di epoche e stili differenti, destinate a contenere offerte votive o acqua di percolazione.
Le pitture in ocra rossa sono probabilmente le più antiche, ma non certo le sole. L’unicità della Grotta dei Cervi è dovuta all’enorme numero di immagini, circa 3.000, quasi tutte prodotte con guano subfossile di pipistrello, sostanza nera e densa che abbonda in uno dei corridoi. Le pitture sono raccolte in circa 80 raggruppamenti nei tre corridoi, per un’estensione totale di circa 600 metri. La Grotta dei Cervi viene spesso considerata una Cappella Sistina del Neolitico, ma forse sarebbe più corretto paragonarla a un testo sacro in una lingua ignota: la maggior parte dei pittogrammi, infatti, è astratta, e oggi per noi indecifrabile. A differenza di grotte molto più famose come quelle di Lascaux e Altamira (di epoca paleolitica), in cui le rappresentazioni sono figurative, il grosso dell’arte della Grotta dei Cervi è costituito da simboli. La figura umana da filiforme diventa sinuosa e dinamica, ma sempre più astratta. Accanto al figurativo, per quanto stilizzato, vi sono immagini che rappresentano forse concetti, quasi come una forma di proto-scrittura ante litteram, raggruppati insieme a formare pagine di storia indecifrabile.


FOTOGALLERIA Coperta di misteriose pitture murali, la Grotta dei Cervi, vicino a Otranto, era un luogo di culto delle prime comunità di agricoltori
di di Lisa Signorile e Anna Rita Longo - Fotografie di Nicola Destefano

Diversi oggetti sono stati ritrovati nella grotta, soprattutto vasi, di cui alcuni elegantemente decorati con sembianze umane, teste di asce in metallo, "pintadere", timbri usati per decorare il corpo o le pareti, e altri oggetti dal significato meno chiaro. Immagini non in scala

Per non perderci nei meandri, su richiesta della Soprintendenza di Lecce veniamo accompagnati in grotta dallo speleologo Ninì Ciccarese, direttore scientifico del Gruppo speleologico salentino, che ci racconta diversi aneddoti sui lavori di scavo e ci offre alcune interpretazioni dei pittogrammi. Per saperne di più, attraversando ancora uliveti martoriati, piccoli rimboschimenti di conifere e strade rettilinee e tutte simili, incontriamo Medica Assunta Orlando, direttrice del Museo Civico di Maglie. Signora elegante e dalla forte personalità, ci racconta entusiasta e nostalgica della sua partecipazione alle campagne di scavo negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso nella Grotta dei Cervi, di cui le prime supervisionate da Paolo Graziosi, l’unico archeologo che abbia studiato in modo sistematico le pitture della grotta tra il 1970 e il 1988. È lei a spiegarci come interpretare le figure labirintiche, ripercorrendole col dito. La figura umana è ridotta a poche linee essenziali e replicata in sequenza, generando spirali «che alludono probabilmente a quella dimensione collettiva nella quale si svolgeva la vita delle antiche comunità neolitiche delle coste salentine». Una folla danzante per l’eternità.


Altri oggetti ritrovati nella Grotta dei Cervi di Porto Badisco. Immagini non in scala

Della storia antica della Grotta dei Cervi non sappiamo, dunque, molto. Certamente indagini accurate sul deposito archeologico, che ancora si attendono, contribuirebbero a chiarire i tanti dubbi rimasti. Invece la storia contemporanea di questo sito inizia ufficialmente il 1° febbraio 1970, quando un gruppo di cinque speleologi del Gruppo speleologico salentino (Severino Albertini, Enzo Evangelisti, Isidoro Mattioli, Remo Mazzotta e Daniele Rizzo) individuò una cavità inesplorata e, dopo aver smosso i detriti che chiudevano l’accesso, riuscì a farsi strada nell’anfratto, trovandosi di fronte alle spettacolari testimonianze che la grotta celava da millenni. L’esplorazione dei “pionieri” di Grotta dei Cervi, ai quali si erano aggiunti anche Nunzio Pacella e Giuseppe Salamina, terminò l’8 febbraio. Entro le successive due settimane si provvide a chiudere l’accesso alla grotta con un cancello, ma non ad acquisire la proprietà al pubblico demanio, cosa che ne avrebbe reso più agevole la tutela.

Oggi lo Stato, proprietario degli ambienti interni della grotta, deve convivere con le esigenze dei privati che, per fortuna, avendo investito nelle vicinanze in strutture di tipo turistico-ricettivo, hanno interesse a preservare il patrimonio culturale della Grotta dei Cervi, che, anche se chiusa al pubblico, è un forte elemento di richiamo. L’accesso alla grotta è autorizzato infatti solo per ragioni di ricerca o per monitoraggi ambientali (come, per esempio, valutare la presenza di radon, o per studiare variazioni microambientali) o, eccezionalmente, per realizzare servizi per la divulgazione scientifica. Per motivi di sicurezza l’area è recintata e non ci sono indicazioni di alcun tipo.

Ma poiché il patrimonio archeologico è anche un bene di cui tutti devono poter usufruire, si è avviata un’intesa con il Comune di Otranto perché nel Castello Aragonese (che ispirò il celebre romanzo di Horace Walpole Il Castello di Otranto) sia possibile in futuro effettuare una “visita virtuale” della grotta attraverso proiezioni in 3-D. Un passo importante per restituire al territorio la ricchezza del “santuario del Neolitico europeo”.

Oggi c’è però ancora qualcuno che sfrutta clandestinamente la grotta, come forse faceva 8.000 anni fa: durante la nostra visita abbiamo rinvenuto molti indizi della presenza di mustelidi, faine o tassi. Animali, questi ultimi, che secondo i ricercatori venivano cacciati per la loro pelliccia, assieme alla lontra e alla volpe, dalle popolazioni neolitiche salentine. Se da un lato è un buon segno che ci dice che tracce di quel primitivo ecosistema neolitico incontaminato esistono ancora, dall’altro resta il dubbio di quale possa essere l’impatto sul delicato ambiente della grotta delle contaminazioni microbiologiche portate da questi animali.

http://www.nationalgeographic.it/

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Mondo Tempo Reale è il blog che dal 2010 vi racconta le notizie più incredibili, strane, curiose e divertenti: fatti imbarazzanti, ladri imbranati, prodotti assurdi, ricerche scientifiche decisamente insolite.
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