La sorprendente ricchezza genetica delle minoranze italiane

Una maschera tradizionale del Carnevale di Sappada (Belluno), paese sede di un'antica comunità di lingua tedesca. Fotografia di Stefano Torrione, dal servizio Istinto carnevalesco
Le comunità isolate mostrano più variabilità genetica di quelle aperte, rivela una ricerca; ma per studiare le popolazioni umane non basta analizzare il loro DNA

Grazie alla sua posizione al centro del Mediterraneo, la penisola italiana rappresenta un ponte naturale tra Africa ed Europa. Millenni di scambi e di contaminazioni hanno lasciato il segno nel nostro DNA: la variabilità genomica degli italiani è infatti tra le più elevate d’Europa. Da questo costante rimescolamento di geni emergono però alcune eccezioni nelle quali una posizione geografica defilata o l’esistenza di barriere culturali e linguistiche hanno plasmato delle comunità isolate, come quella arbëreshë (le popolazioni di lingua albanese stanziate in alcune zone del Sud), i ladini, sparsi nelle valli delle Dolomiti, i cimbri dell’Altopiano di Asiago o i grecanici del Salento.

“Siamo abituati a considerare le popolazioni isolate come ‘incidenti di percorso’, un’eccezione rispetto alla maggioranza delle popolazioni naturalmente aperte agli scambi culturali e genetici”, esordisce Giovanni Destro Bisol, professore di antropologia all’Università La Sapienza di Roma. Ma questa prospettiva viene parzialmente messa in discussione da una lunga ricerca condotta ormai da dieci anni grazie alla collaborazione tra le Università di Bologna, Cagliari, Pisa e La Sapienza, e finanziato anche grazie a un fondo della National Geographic Society. Le ultime conclusioni sono apparse in un articolo pubblicato su Nature Scientific Reports e firmato da Destro Bisol assieme a Paolo Anagnostou e altri colleghi.

Al contrario delle popolazioni "aperte", il cui passato può rivelarsi di difficile comprensione, le popolazioni isolate rappresentano il banco di prova ideale per studiare le tracce lasciate dai fattori sociali, come il concetto di identità culturale, nel nostro DNA. I ricercatori hanno studiato l’architettura del genoma, ovvero il modo in cui i geni sono arrangiati al suo interno, nelle persone appartenenti ad alcune minoranze linguistiche italiana, confrontando poi i risultati con un ampio dataset sulle popolazioni aperte. Ma quando si tratta di riscrivere la storia dell’uomo, la tecnologia da sola può non bastare. "Per questo nel nostro studio siamo andati in mezzo alle persone. Abbiamo voluto restituire il ‘volto umano’ dell’antropologia", prosegue Destro Bisol. La parte in laboratorio è stata accompagnata da riunioni periodiche con i componenti delle comunità, durante le quali studiosi e studiati hanno potuto conoscersi e discutere su usi, costumi, così come sui risultati dell’analisi. “È loro la storia che vogliamo raccontare attraverso la nostra ricerca. Perciò abbiamo discusso insieme ogni fase del lavoro, e alla fine è stato umanamente molto gratificante essere riusciti a scrivere una storia genetica che fosse condivisa con le comunità”.

Dai dati emerge che tra la variabilità genetica dei gruppi isolati è fino a sedici volte maggiore di quella riscontrata tra i gruppi aperti, come spagnoli, russi o greci. Una diversità che è il prodotto di sentieri storici unici in cui i fattori culturali, ambientali e demografici hanno giocato un ruolo cruciale. Esempio ne sono le comunità di lingua germanica di Sappada, Sauris e Timau, originatesi da piccoli gruppi che hanno popolato aree contigue delle Alpi tra Friuli e Veneto in epoca medievale. “A dispetto delle comuni radici storiche e culturali, confrontando il loro genoma è stato possibile osservare differenze paragonabili a quelle riscontrate tra i Baschi della Francia meridionale e gli abitanti delle isole Orcadi al largo della Scozia, gruppi molto lontani per storia e geografia”, prosegue Destro Bisol. Le dimensioni ridotte dei tre gruppi alpini, che nel loro insieme non superano un paio di migliaia di individui, non bastano a spiegare la diversità. “Bisogna considerare anche l’importanza del loro senso di identità. Infatti, a differenza di quanto avviene in altri gruppi alpini, nelle loro scelte matrimoniali l’appartenenza alla propria comunità prevale sulla comune ascendenza germanica”.

Diverso è il caso dei cimbri, un altro gruppo di origine tedesca che si è insediato tra il decimo ed il dodicesimo secolo nell’altopiano di Asiago in Veneto e quello degli abitanti di Carloforte, enclave ligure situata nell'isola di San Pietro, sulla costa sud orientale della Sardegna. “I cimbri sono andati nel tempo incontro ad una parziale assimilazione culturale che li resi più ‘porosi’ agli influssi linguistici e genetici delle popolazioni locali. Anche se la lingua è in regressione, la cultura cimbra gode di una estrema vivacità, grazie all’associazionismo che tiene in vita le tradizioni”, prosegue Destro Bisol. “Quanto ai carlofortini, il loro isolamento dei carlofortini è stato nel tempo mitigato da apporti intermittenti da parte di popolazioni esterne nel corso della loro peregrinazione dalla zona di Pegli, in Liguria, all’isola di Tabarka in Tunisia e poi fino ai lembi meridionali del Sulcis”. Per questi motivi i due gruppi mostrano un’attenuazione dei segnali tipici dell’isolamento nel loro genoma, la cui struttura è risultata in definitiva più simile a quella dei gruppi aperti, come i Francesi o gli Italiani del nord-ovest, che non a quella di altre comunità isolate.

Le diversità del nostro DNA non si prestano alle classificazioni rigide e semplicistiche individuate dal sequenziamento, conclude Destro Bisol. “La barriera che separava le popolazioni aperte da quelle isolate è stata infranta: solo una sintesi tra biologia e cultura può aiutarci a riunire le tante storie dell’evoluzione umana in un unico grande racconto”.

http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2017/02/16/news/la_sorprendente_ricchezza_genetica_delle_minoranze_italiane-3425032/

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