L'Inquisizione e le accuse di eresia agli zingari



Oltre che accanirsi su innocue fanciulle sospettate di praticare arti magiche e intrattenere rapporti promiscui con demoni e diavoli di varia natura, il tribunale dell’Inquisizione concentrò la sua attenzione su diverse categorie minoritarie classificate come sospette o ambigue. Tra queste gli zingari occupavano un posto di primo piano a causa delle loro tradizioni e del loro stile di vita.

Levatrice
L’Inquisizione, per quanto impegnata soprattutto a dirimere le questioni connesse all’eresia, non trascurava di classificare ogni gruppo umano e ogni umana azione all’interno delle sue categorie di giudizio. Eretico era essenzialmente colui il quale non prestava obbedienza al volere di Roma e con “eresia” si definiva “la credenza o il comportamento contrario alla dottrina ortodossa“. La parola deriva dal greco hairesis, che significa “scelta”. Dunque, ciò che la Chiesa non poteva tollerare era il diritto di scelta, vale a dire optare per qualcosa che non si rivelasse conforme alle opinioni dogmatiche dei vescovi.

Una volta che anche il mondo magico aveva fatto il suo ingresso in questa dimensione, il campo si era allargato a dismisura, al punto che chiunque poteva essere accusato di eresia e andare incontro a gravissime conseguenze. Tanto per fare un esempio significativo, è bene ricordare che le levatrici erano malviste dalla Chiesa che le teneva in odore di peccato, in quanto la nascita era considerata una sorta di peccato che faceva carico al neonato e alla madre che lo partoriva; in questo, ovviamente, faceva eccezione Maria, la madre di Gesù, in quanto Vergine e dunque aliena dall’aver consumato il peccato della carne, visto che la sua concezione era scaturita in modo immacolato. Per questo alle puerpere che morivano durante il parto, la Chiesa non concedeva la sepoltura religiosa considerandole impure peccatrici.

Per la Chiesa le levatrici erano delle streghe, in quanto non solo collaboravano attivamente a che si compisse un atto peccaminoso, ma erano solite usare erbe e pozioni per alleviare il patimento della puerpera e addirittura dispensare consigli, in chiaro spregio di quanto sosteneva la Chiesa. Per quanto riguardava invece le neo madri, esse dovevano purificarsi con umile atto di sottomissione ed era proibito loro di frequentare qualsivoglia luogo consacrato se prima non si confessavano ricevendo la benedizione di un prete. Ai bambini il peccato di essere nati veniva rimesso con un pronto battesimo, ma se mai fossero morti prima di riceverlo la loro anima non avrebbe fatto a tempo a tornare pura.

Un altro gruppo o categoria presa di mira dalla Chiesa Romana erano gli zingari, considerati tutti stregoni e maghi. Per la Chiesa tutte le persone che non avevano fissa dimora venivano viste con grande sospetto, perché si immaginava che una vita itinerante fosse il mezzo migliore per eludere i doveri religiosi e scansare l’autorità clericale. I gitani vivevano al di fuori di città e villaggi ed erano considerati persone misteriose e oscure. Molti zingari erano bravi artigiani, soprattutto scalpellini, incisori e costruttori di botti, altri abili venditori ambulanti, altri ancora domatori di cavalli o ammaestratori di animali, tutti mestieri molto vicini alla scomunica.

Altre abitudini tipiche del mondo gitano che il Vaticano considerava eretiche erano l’uso della chiromanzia e della predizione della fortuna, la vista sul futuro, una pratica da condannare poiché squarciava veli sul mistero del tempo a venire, la cui conoscenza poteva far capo soltanto a Dio. Ma uno degli oltraggi più fieri che la Chiesa non riusciva proprio a tollerare consisteva nel fatto che gli zingari portavano degli anelli alle orecchie. Era un chiaro segno che riconduceva all’eresia degli Albigesi, come Giovanna d’Arco che, fra le tante accuse, aveva anche ricevuto quella di stregoneria per via di alcuni anelli ritenuti magici che possedeva. Per gli inquisitori, gli zingari facevano uso di tali anelli per adoperarli in pratiche magiche ed evocative, cosa ulteriormente segnalata dal fatto che le loro case, i carrozzoni, erano sostenute da ruote a raggiera, simbolo evidente della presenza del demonio. Quelli fra loro che sapevano trattare le erbe erano accusati di stregoneria come produttori di pozioni e filtri magici, mentre i ventriloqui non potevano che trarre quella loro balzana capacità dall’accordo con le forze di Satana. Nel XVII secolo Henry Boguet, il celeberrimo cacciatore di streghe di Borgogna, scriveva nella sua opera intitolata “Discorso sulla stregoneria“: “Ritengo sia utile cacciare e imprigionare tutti coloro che di mestiere sono commedianti e menestrelli, dal momento che in modo inevitabile non possono che essere stregoni e maghi“.

Henry Boguet
Quando Boguet nel suo trattato parla dei lupi mannari, riferendosi alle centinaia di persone da lui condannate alla tortura con questa motivazione, dichiara non esserci una sostanziale differenza fra i soggetti maschili e quelli femminili. Il bello è che anche se gli accusati non avevano commesso alcun crimine, il solo fatto di essere sospetti licantropi era già di per sé sufficiente a farli condannare senza remissione. Boguet si vantava, per esempio, di aver spedito al rogo, per ardere viva, una giovane e bella ragazza per il solo fatto che qualcuno sosteneva di averla vista aggirarsi nei pressi di un cespuglio dal quale era poi venuto fuori un lupo. Insomma, la parola d’ordine prevalente fra i cacciatori di streghe era la stessa di coloro che avevano incoraggiato la crociata contro gli Albigesi: “Uccideteli, uccideteli tutti. Sarà Dio a riconoscere chi ha colpa oppure no!“.

Nel secolo che intercorse a partire dal 1525 nella sola Francia, senza contare tutto il resto dell’Europa, vennero consumati non meno di 30.000 processi per licantropia, con la condanna soprattutto di zingari o di poveri contadini ignoranti che vivevano nelle campagne immersi nelle loro utili quanto innocue superstizioni popolari. L’idea era che questa gente, rude e rozza, che viveva a così stretto contatto con la natura, girovagando fra boschi e foreste, in posti selvaggi e oscuri, non potesse che cadere nelle trappole del demonio. Il collegamento più stretto che gli inquisitori sospettavano fra zingari e licantropia consisteva nel ruolo svolto dalla Luna e dall’elemento metallico che la tradizione le assegnava da sempre: l’argento. Per questo si diceva che per uccidere un lupo mannaro le uniche armi efficaci potevano essere una pallottola o una punta d’argento; oppure che per conoscere il vero ed evitare la maledizione di uno zingaro o di un potenziale lupo mannaro era costume toccare qualcosa d’argento come segno di scaramanzia o, meglio ancora, lasciar cadere una moneta d’argento. In cambio, il gitano, di solito una donna, avrebbe sfoderato la propria arte divinatoria che, un tempo come oggi, altro non è che la capacità di predire la fortuna semplicemente “leggendo” i segni e i gesti del corpo. La mitologia faceva risalire questa conoscenza esoterica all’antico sapere ereditato dall’Egitto e in particolare dalla città di Licopolis, il cui protettore era proprio un dio lupo. Per questo motivo (senza troppo badare alla vera origine) gli zingari erano anche detti Egiziani, prima che il nome venisse abbreviato in gitani. Ed è ancora per questo collegamento che sovente Maria Jacoba veniva chiamata tanto Maria Egiziaca quanto Maria la Zingara.

Il regno della Dea, raffigurata in divinità come Diana o Kali, era la Luna, una sfida terribile portata verso la fede cristiana fondata sull’adorazione di un unico dio maschio. Il lupo, creatura notturna per eccellenza, poteva dunque assumere su di sé valenze oscure e lunari, mentre altre volte era volentieri associato al culto delle querce dei sacerdoti druidici. In aggiunta, oltre a scandire il fluire del tempo, i periodi e i cicli, l’apparire e lo svanire della Luna (elemento assolutamente vitale ed essenziale nella tradizione magica Occidentale) governava anche l’alternarsi delle maree. Nella Magia il picco o “l’alta marea”, il momento in cui l’energia è massima coincide con la Luna piena, guarda caso proprio quando i licantropi assumono la loro sembianza animalesca. Il legame che unisce il lupo alla notte è ulteriormente ribadito nel momento in cui si riconosce la notte come corrispondente all’inconscio e alle tenebre. Di notte la visibilità è molto limitata e anche gli oggetti che durante il giorno ci sono familiari assumono contorni incerti e sconosciuti, così come la stessa atmosfera si fa misteriosa. Come conseguenza, da sempre alla notte si sono associate le cose nascoste, vale a dire, facendo un passo oltre, le cose occulte, una parola che significa semplicemente nascosto. Nella tradizione cristiana invece, qualcosa di nascosto non vuole dire qualcosa di celato, ma ha un senso più profondo e sottile e significa segreto, con tutta la diffidenza che la parola si porta dietro. Da tutto questo discende che la notte e le tenebre sono ambigue e sinistre, da cui il popolare modo di dire “il lato oscuro” quando ci si riferisce all’aspetto di un problema che è tabù.

Da ultimo, si compie il passaggio decisivo: per la dottrina della Chiesa, il licantropo è simbolo dell’uomo che vive nella notte perché è stato soverchiato dalle forze delle tenebre e dall’oscurità. Forze che agli occhi dell’Inquisizione non potevano che apparire come il grande peccato demoniaco di streghe, maghi e zingari erranti delle foreste: tutta gente nei confronti della quale la lunga mano dei vescovi della Chiesa non aveva potere alcuno e che, proprio per questo, era senz’altro meglio venisse perseguitata ed eliminata piuttosto che compresa o per lo meno tollerata.

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